12 Aprile 2018
Capi

L’arcivescovo incontra le comunità in cammino

«Gesù contesta la filosofia dell’ormai. L’irrimediabile trova rimedio» Mons. Delpini conclude la tre giorni delle comunità capi per riflettere sul discernimento come stile della comunità capi cristiana

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Dopo la celebrazione eucaristica, l’arcivescovo si è fermato con noi e lo abbiamo incontrato insieme ai capi Gruppi per scambiare qualche pensiero sull’esperienza che abbiamo vissuto e sul percorso che stiamo seguendo.


Introduzione di padre Davide Brasca (Assistente ecclesiastico generale)

Tre cose introducendo questa chiacchierata.

La prima è questa: lo scautismo milanese e dintorni ha avuto un posto molto importante nello scautismo cattolico in genere. Quando accade qualcosa da queste parti, accade qualcosa che riesce a coinvolgere e a far sentire il suo eco anche nell’intera vicenda dello scautismo cattolico italiano.
Sono note a tutti mi pare le pagine della resistenza contro la dittatura fascista. Ci sono note anche le pagine in cui il suo predecessore, Paolo VI, si è confrontato con Baden [mons. Andrea Ghetti, n.d.r.] per la rinascita dello scautismo cattolico italiano. Non possiamo neanche dimenticare il contributo straordinario di Giancarlo Lombardi negli anni della nascita dell’Agesci.
Quindi voglio dirvi, capi scout, che quando succede qualcosa da queste parti è un fatto importante per tutta l’Associazione. Lo dico come assistente ecclesiastico generale sapendo che siamo un’Associazione dove tutti si muovono, però questa città ha avuto nella sua storia un suo peso.

Il secondo pensiero è che si fanno le domande per ascoltare le risposte. Nel Vangelo c’è anche chi fa le domande per mettere alla prova. Queste non sono persone tanto bene educate (e lo dico con questa parola perché non posso dirlo con le altre).
Penso che l’ascolto, visto in questi anni di assistente generale, si caratterizza dalla capacità dei nostri pastori di ascoltarci riguardo alle problematiche ed alle fatiche, di ascoltarci anche quando la facciamo un po’ più grande del necessario e in modo non proprio raffinato e non adeguato ci ascoltano. Dopo dobbiamo ascoltare le risposte che i nostri pastori ci dicono sennò siamo come quelli che fanno domande per mettere alla prova, e Gesù non ne parla tanto bene.

L’ultima cosa è: solleviamo il nostro arcivescovo dal rispondere a tutto.
Non sei un politico che deve raccogliere voti per cui «Ci devo pensare un po’ su» è una risposta intelligente.


Vescovo Mario, noi ora le leggiamo un po’ di domande che abbiamo raccolto e che leggiamo così come sono arrivate. La prima domanda che abbiamo raccolto è: lei come vive il discernimento?

Mi sembra che tutto il mio servizio di vescovo consiste in questo non ho altro da fare che vivere il discernimento. Io distinguerei tra il discernimento personale e il discernimento per il servizio che devo fare alla Chiesa. per quanto riguarda il discernimento personale ho imparato a cercare di fare due o tre cose:

  • sforzo di capire che cosa mi viene domandato, che cosa la vita mi chiede perché non è sempre chiaro;
  • dialogare con il signore Gesù che non è una specie di astrazione che sta chissà dove, ma è una presenza amica che non sempre risponde subito alle domande, ma che attraverso la parola del Vangelo cioè di Dio si arriva a tutte le risposte;
  • chiedere consiglio trovare le persone sagge che ispirano fiducia, neanche loro hanno tutte le risposte, ma di fronte all’ipotesi di fare una cosa possono esprimere un parere.

Ecco queste tre cose per il discernimento personale. Più difficile è il discernimento come vescovo, cioè come di uno che ha la responsabilità con le sue parole di dare vita e guidare la Chiesa. Anche qui mi pare che la fortuna che io ho è che c’è intorno a me tanta gente esperta nei vari ambiti di intervento, che ama la Chiesa e quindi vuole aiutare sinceramente il bene, che noi abbiamo tanti Consigli cioè luoghi dove siedono persone di cui io ho grande stima e che dialogano e si confrontano. Lo spirito parla attraverso il dialogo tra le persone.
Il cammino del discernimento è così: capire le domande, procedere per un cammino sinodale e poi arrivare a una decisione. Non vivo troppo drammaticamente il processo di decisione perché non lo vivo con ansia dal momento che decidere una cosa o un’altra non cambia la storia; magari una è più giusta, ma l’altra è più saggia.
A parte le grandi cose essenziali, quelle del tipo «come orientiamo la vita di questo prete?», «cosa decidiamo di questa comunità?», «quale sarà il cammino pastorale del prossimo anno?» sono cose importante però io dico che siamo nel campo del relativo per cui anche se io sono il vescovo andrebbe bene pure un altro.
In tante decisioni non c’è un giusto o sbagliato, ma solo quello che sembra più opportuno. Tante volte, invece, decidere vuol dire rendere la cosa giusta proprio perché la decidi. Non sempre ci sono in ballo princìpi e quindi vivo con una certa serenità il discernimento.

Come possiamo portare il discernimento da una dimensione personale a una dimensione comunitaria?

Penso di aver già risposto. Il livello personale ha anche un suo ambito di riservatezza per le cose fondamentali per cui non è bene discuterne in comunità. Io nutro sospetto per quelle comunità che decidono la vita delle persone.
Certo che, ad esempio, per ordinare un prete io chiedo consiglio alle persone, perché è importante che facciamo bene. Le scelte personali però hanno bisogno anche di quella delicatezza e riservatezza che sono proprio tipiche della libertà della persona.
Invece portare il discernimento a livello comunitario non so bene a che cosa si riferisca.

Il riferimento è alla condivisione delle scelte educative dalla quale dipendono la qualità della vita all’interno delle comunità.

In questo senso, allora, una scelta di tipo individualistico non va mai bene perché io credo che l’Agesci abbia delle linee o dei programmi forniti dai vari livelli che danno il perimetro all’interno del quale possiamo fare le nostre scelte, scelte che sono il frutto del dialogo tra i componenti dell’associazione.
L’ascolto reciproco è una garanzia della saggezza della decisione. Quindi quando uno ha una responsabilità non può essere così presuntuoso da decidere tutto da sè. Anche l’aspetto gerarchico è un modo per condividere la responsabilità però alla fine dipende anche da che cosa c’è in gioco.
Se è una scelta logistica o un intervento educativo che diventa saggia quando caratterizzata dall’ascolto. A dire la verità non conosco molto i meccanismi all’interno della vostra associazione quindi magari dico delle cose poco precise, però poi capite che devo anche imparare.

Una domanda che viene da una comunità capi che vive un momento difficile nel gruppo e che si rivolge a lei per un consiglio: purtroppo settimana scorsa è tornato alla casa del padre il fratello di sei anni di due ragazzi del nostro gruppo. Si è creato con i ragazzi un periodo di tristezza e di ricerca delle risposte. Quale messaggio inviare ai ragazzi attraverso l’ascolto della parola? Com’è possibile rendere profondo questo periodo di riflessione sul senso della vita e della morte?

Questa è la domanda più impegnativa e più difficile per la quale forse non esistono delle risposte.
Questa domanda mi era già arrivata e nel commento di questo Vangelo di Lazzaro che abbiamo ascoltato ho cercato di tenere presente questa domanda perché effettivamente è una domanda drammatica e di cui non si sa se sia una domanda per avere una risposta o drammaticamente per condividere lo smarrimento. Perché è chiaro che il doloro della perdita quasi fulminante di un ragazzo è un dramma e il farlo diventare una domanda è un modo, forse, più per sfogarsi e condividere lo sconcerto piuttosto che per trovare una risposta. È bene che questa domanda venga vissuta quando si è un po’ sereni piuttosto che nel momento del dolore quando ogni cosa che viene detta sembra retorica.
Noi dobbiamo sempre pensare alla morte perché è un avvenimento sconcertante ma la morte è per tutti e tutti andiamo incontro ad essa; poi è chiaro che una volta è il nonno e una volta il compagno di università e queste morti hanno un peso differente. Quello che consigliavano gli antichi è di rivolgere ogni tanto il pensiero alla morte; è saggio perché nel momento dell’impatto uno rischia di essere del tutto scombussolato.
I cristiani guardano a Gesù che di fatto è entrato nella morte per resuscitarci tutti. Le tante domande: «dov’è Dio, l’uomo che non salva dalla morte il piccolo Daniele?» sono domande drammatiche per tutto il pensiero umano. Il cristiano sa che a queste domande la risposta non viene da una poesia o una filosofia retorica, ma la risposta viene da Gesù. È proprio in lui, e meditando il fatto che è morto lui, che possiamo trovare una consolazione alla morte dei nostri cari e alla nostra morte quando la incontreremo. La risposta a questa domanda non è una risposta, ma è una comunione. È il fatto che Gesù è entrato nella vita degli uomini fino al punto di condividerne la morte e con la sua morte ci ha salvati. Questo è uno dei punti fondamentali della nostra fede.
Ma cosa significa che la morte di Gesù ci ha salvati? Vuol dire che lui morendo ci ha aperto la via della vita. Vuol dire che, proprio perché si è messo lì dove tutti passano, si è posto come il salvatore di tutti. Se lui si fosse messo nel tempio sarebbero stati salvati quelli che andavano nel tempio, professavano un certo credo e praticavano una certa legge. Invece Gesù è andato nella morte ed entrando in comunione col Padre rende il morire la via d’accesso a questa comunione.
Io non so cosa rispondere agli amici, ai famigliari, che forse più che di parole hanno bisogno di Spirito Santo: il dono dell’amore e della sapienza di Dio. La poesia, le parole, sono testimonianze di vicinanza in cui le persone trovano un conforto. la risposta è, però, solo lo Spirito che genera una comunione e una speranza di resurrezione e di nuova comunione con tutti i nostri cari.
Io credo che abbiamo bisogno di guardare a Gesù, ricevere il dono dello Spirito e fare molto silenzio perché le parole in questo caso rischiano di ferire più che di dare risposte.

Quale rapporto ci può essere tra il Gruppo scout e l’oratorio in cui il gruppo ha sede. Come possiamo sentirci parte della stessa famiglia nonostante le difficoltà burocratiche?

Penso che dipenda anche molto dalle persone. Condividiamo la stessa fede, abbiamo lo stesso desiderio di educare i ragazzi che ci sono affidati, usiamo gli ambienti dell’oratorio con metodi diversi ma siamo parte della stessa Chiesa.
A volte lo stile che uno usa sembra fatto a posta per provocare il dispiacere dell’altro. Faccio l’esempio di un mio amico prete che non ne poteva più degli scout non per una questione di massimi principi ma di rispetto delle norme del vivere comune come l’ordine e la pulizia della sede.
Per entrare nel concreto, il Cardinale Scola usava la figura della comunità educante cioè il gruppo di persone che sono concentrate sull’educazione dei ragazzi che gli sono affidati si sentano alleati. Ha una traduzione concreta nel Consiglio dell’oratorio in cui c’è uno stile sinodale, in cui c’è una comunione di obiettivi nel rispetto dell’organizzazione dei singoli gruppi.
Personalmente ritengo che una cosa irrinunciabile sia la messa della domenica. I cristiani vivono intorno all’eucarestia che è un principio molto chiaro, discutibile teologicamente, ma il cui risultato è che a messa la domenica non ci va nessuno, né l’oratorio né gli scout. Quello che ci dovrebbe più unire è cio che è più disertato e questo ci dovrebbe far pensare a perché la forma di regolamento del condominio non è quello che unisce ma è invece la partecipazione all’unica vita cristiana che unisce tutti.
A me preoccupa che la centralità dell’eucarestia non sia percepita come un luogo reale, come momento di nascita della Chiesa. È chiaro che se una comunità nasce divisa sulla base dei singoli spiriti è difficile unire. Bisogna cercare di ritrovare il punto fondamentale che ci unisce.

Ci troviamo spesso —quasi sempre— a fare una proposta cristiana che è la prima proposta ricevuta, perché i ragazzi sono stranieri o anche italiani ma provenienti da famiglie non praticanti o anche dichiaratamente atee. Su cosa ci consiglia di puntare per pensare alla nostra proposta in un contesto di questo genere?

Non saprei cosa dire. Secondo me, è lo Spirito Santo che ci suggerisce come lavorare. Come si fa a raccogliere una domanda un po’ confusa che accomuna tutti, via Padova come via San Vittore? In questo caso c’è più il problema di trasmettere la cultura e le norme sociali di questo paese che è poi la difficoltà specifica.
Al di là di questo, io penso che quando uno vuol bene ad un ragazzo ed è convinto che fargli una proposta cristiana sia un modo di volergli bene, non di inquadrarlo in una serie di dottrine e di schemi, allora propone la vita cristiana ai ragazzi perché crede che gli faccia bene la vita cristiana.
Allora, mi chiedo: su cosa possiamo puntare? Non lo so! Probabilmente ciascuno di voi ha una sua genialità e una sua particolarità che risponde ai suoi talenti. Penso che ciascuno di noi abbia una risposta alla domanda una po’ perché dà la risposta dello Spirito Santo e un po’ partendo dalla propria esperienza personale riadattata a seconda dell’esigenze. Affrontiamo le domande avendo fiducia che non sia la singola parola e la singola proposta che incide, ma è il contesto di appartenenza alla singola comunità che incide. Perché è attraverso la Chiesa che possiamo incontrare Gesù. Non vedo molta differenza tra avere solo italiani e avere anche stranieri, ma il tema è avere la coscienza che la vita senza l’incontro con Gesù è un po’ vuota. Poi ci si può arrivare da tante strade e voi siete abbastanza capaci di dare risposte là dove il Signore vi ha chiamati.