A cura di Dario Amoroso d’Aragona
Forse nessun altro è riuscito a descrivere in maniera così vera il mio servizio, il mio modo di essere capo.
In tante parole spese, in tanti P.d.C, in tante verifiche e confronti.
Queste parole, lasciate su un bigliettino sul mio zaino, sono state le parole che i maestri di specialità del campetto alla quale ho fatto servizio mi hanno lasciato.
Ed io ci ho visto tutto me stesso.
La capacità con la quale i ragazzi riescono a leggerci rimarrà una delle cose più belle.
Non avevo avuto tempo di mettere a posto lo zaino, avevo rimandato al pomeriggio, a dopo che i ragazzi se ne fossero andati.
Spesso ci sentiamo di dover essere perfetti, di non poter sbagliare, ci sentiamo addosso la responsabilità di essere dei modelli, dei punti di riferimento.
Io sono il re del disordine, ma quando ‘sono agli scout’ dissimulo, creo una sorta di bolla nella quale poter far esplodere il mio disordine che non varca la mia tenda, la stanza dei capi o la cambusa.
E anche questa volta pensavo di averla scampata.
Invece è bastata una giornata, qualche ora passata insieme, con le mani sporche di grasso mentre facevamo vedere come riparare una bici a farmi sgamare.
E non perché non sia stato attento, ma perché loro avevano deciso che dovevano scavare, conoscermi, andare oltre.
Osservarmi nell’essere sempre alla ricerca di qualcosa, di qualche pezzo.
Volermi conoscere e trovare una relazione rumorosa perché giocosa, irruente.
Ed io li ho fatti fare, mi sono fatto vedere, mi ci sono buttato a capofitto in questa relazione.
Perché alla fine non è questo che vogliamo? Riuscire a creare quella relazione sana capo-ragazzo, quella relazione autentica che ci permette di essere quelli che siamo, che permette ai ragazzi di farci leggere, senza perdere il nostro essere punto di riferimento. Testimoni credibili, perché reali, perché veri.
E quando tutto questo accade con dei ragazzi che non conosci, dopo meno di 48 ore dalla prima stretta di mano, è tutto ancora più stordente.
A qualcuno potrebbe dar fastidio essere definito “disordinato” dai propri ragazzi.
Ma essere veri significa essere imperfetti.
Testimoniare l’imperfezione, a mio parere, è una delle sfide più grosse del nostro tempo. Ci troviamo spesso a confrontarci con ragazzi sentono il peso di dover essere perfetti, perfetti agli occhi dei genitori, perfetti agli occhi degli altri, ragazzi che devono fare, fare, fare, perché più cose fai più potrai pretendere dalla società, da questo mondo.
Ragazzi che però sentono l’ansia, la pressione di non poter essere perfetti.
Oggi l’impresa eccezionale è proprio essere normale.
E non fraintendetemi, essere disordinati non è una virtù’, ma nel mio disordine non mancava una brugola, non mancava una chiave inglese, tutto era li, tutto il necessario per realizzare ciò che era stato pensato, ideato e progettato insieme ai maestri era lì, ma poi le mie cose erano alla rinfusa nel mio zaino, la borraccia sul tavolo dove avevamo fatto staff e la gavetta da qualche parte in cambusa, sempre alla ricerca di qualche pezzo.
Perché io sono così, perché noi educhiamo alla versione migliore di noi stessi, perché’ il metterci in gioco significa avere a che fare con i propri limiti accettandoli per provare a migliorarsi, perché’ siamo Capi e non Supereroi.
Forse dimostrare che la strada non è la perfezione ma trovare un proprio modo di fare le cose è più importante che cercare di essere supereroi.
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